Il laboratorio di sartoria del carcere della Giudecca
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Il laboratorio di sartoria del carcere della Giudecca è un progetto di lavoro e formazione professionale fortemente voluto dalla cooperativa sociale “Il Cerchio” di Venezia. Parlare di quest’iniziativa vuol dire raccontare la storia e i prodotti del laboratorio, ma anche riflettere sul tema della formazione professionale e del lavoro in carcere.
Cos’è il laboratorio di sartoria del carcere della Giudecca
Il laboratorio di sartoria del carcere della Giudecca è una delle attività che la cooperativa sociale “Il Cerchio” ha avviato e gestisce nella città di Venezia. Nata nel 1997, “Il Cerchio” promuove progetti e iniziative per l’inclusione lavorativa e sociale di persone svantaggiate, collaborando anche con enti pubblici e aziende private del territorio.
Tra le attività della cooperativa:
- la gestione del parcheggio biciclette della stazione di Mestre;
- la collaborazione con ACTV per la custodia dei pontili a Venezia;
- il lavoro di pulizia arenili e attività di igiene pubblica e raccolta differenziata svolto insieme a Veritas;
- la collaborazione con il Comune di Venezia per servizi di cura del verde pubblico, pulizie e sanificazioni, attività di guardiania e portierato;
- la gestione di due mense aziendali e di un ristorante;
- l’attività di lavanderia interna nel carcere femminile della Giudecca, in primavera e in estate occupa oltre 10 detenute, e che lavora con le maggiori realtà turistiche di Venezia.
Nel 2001 viene assunta Annalisa Chiaranda, socia lavoratrice con conoscenze di sartoria. L’intento è quello di creare un laboratorio all’interno del carcere, per insegnare alle ristrette a creare con le mani, liberando la fantasia in una realtà dove non c’è spazio per i sogni.
Anno dopo anno, a piccoli passi, il progetto prende forma, riuscendo a a portare in carcere la bellezza che eleva e dà speranza. Forte di questa convinzione, la cooperativa appoggia e sostiene Annalisa, che insegna ad alcune detenute a tagliare e cucire i tessuti. Si comincia con piccole cose piene di imperfezioni, per arrivare poi a creare abiti sartoriali. Nasce così il laboratorio di sartoria del carcere della Giudecca.
All’inizio tutto è molto spartano, dai mobili scheggiati alle vecchie attrezzature: col passare del tempo, però, la sartoria diventa più moderna e accogliente. Nel carcere della Giudecca vivono tra le 70 e le 80 detenute e in sartoria lavorano 6 donne: il laboratorio confeziona abiti in seta, lino e cotone e offre servizi di piccola sartoria all’interno e all’esterno del carcere. Chi vuole entrare nel gruppo effettua una prova in cui vengono valutate capacità, attitudini e situazione individuale, anche in collaborazione con l’educatrice di riferimento.
Poco distante, a Sacca Fisola, c’è anche un laboratorio esterno creato con l’obiettivo di offrire un’opportunità di lavoro alle donne che lavorano in sartoria anche dopo l’uscita del carcere. Negli anni, il laboratorio ha funzionato a fasi alterne: ora è in attività, e serve anche da magazzino per stoffe e attrezzature.
La sartoria è un luogo di formazione e di lavoro, ma la vita del carcere ha un impatto forte sia sull’organizzazione interna che sulle relazioni tra le persone. Ce lo raccontano Giulia e Margherita, le attuali coordinatrici del laboratorio.
Le difficoltà organizzative e logistiche sono un problema frequente: “L’accesso al carcere è regolato in maniera estremamente rigida, ovviamente, e questo influenza i rapporti con tecnici esterni e fornitori”, spiega Giulia.
Per le detenute il lavoro non è una dimensione separata dalla vita quotidiana in carcere. Fuori, quando si va al lavoro, per otto ore al giorno ci si concentra sulla propria attività: poi si esce, si stacca e si cambia ambiente, nel bene e nel male. In carcere non è così: emozioni e avvenimenti sono amplificati, come se le mura ne rimandassero l’eco. L’udienza di un processo, un incontro con i familiari, la delusione per una notizia a lungo attesa che non arriva hanno ripercussioni pesanti sullo stato d’animo delle donne che lavorano nella sartoria.
Di conseguenza, il clima di lavoro cambia, le situazioni personali influenzano l’attività e a volte il rispetto delle tempistiche non è garantito. Per chi coordina il laboratorio non è facile trovare un equilibrio tra distacco necessario e coinvolgimento personale. Margherita lo descrive così: “Il rapporto umano è l’aspetto più difficile da gestire, ma anche quello che arricchisce di più”.
Una ricchezza che emerge nel cambiamento delle donne che lavorano nel laboratorio. Giulia e Margherita raccontano di persone che, grazie al lavoro in carcere, hanno iniziato ad avvicinarsi all’idea di poter creare qualcosa di bello. Un pensiero potente, per molte del tutto nuovo: “Le vediamo cambiare espressione, acquistare una consapevolezza e un’autostima che prima non c’era”.
Succede anche quando le detenute aggiustano o rivisitano i propri vestiti, nei ritagli di tempo: c’è il piacere di fare qualcosa per sé, lo scambio di idee con le compagne di lavoro, il confronto. Ad emergere sono la loro femminilità e una sorta di normalità. Forse le parole più adatte per descrivere la situazione sono quelle di una delle donne che lavorano in sartoria: “Non mi sono mai sentita me stessa da nessuna parte: qui mi sono ritrovata”.
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La formazione professionale in carcere in Italia
“La costruzione di percorsi di crescita culturale e professionale durante il periodo della detenzione rappresenta un fondamentale strumento di promozione della personalità del condannato nell’ottica del reinserimento sociale”. È il testo dell’ articolo 19 della legge 354 del 1975 che disciplina l’ordinamento penitenziario.
Crescita professionale, promozione della persona e reinserimento: la formazione in carcere è al servizio di questi tre obiettivi. Ma qual è la situazione oggi negli istituti penitenziari italiani?
I dati del XVI Rapporto dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione, pubblicati nel 2020, ci offrono una prima risposta: a fine 2019 i detenuti nelle carceri italiane erano 60.769, mentre quelli occupati in un’attività lavorativa erano 18.070, ossia il 29,74% del totale. Secondo l’associazione, raramente il dato ha superato il 30%, nell’ultimo decennio.
Considerando più nel dettaglio le cifre, lo stesso documento indica che la maggior parte dei detenuti (quasi l’87%) era impiegata alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria. Tra questi:
- l’82,3% si occupava di servizi interni al carcere: pulizie, consegna dei pasti e altri incarichi minori;
- il 7% svolgeva attività legate alla manutenzione dell’edificio;
- il 4,5% era impiegato in lavorazioni di falegnameria, assemblaggio di componentistica e sartoria;
- l’1,1% lavorava in colonie agricole;
- il 5,1% era occupato in servizi esterni, sulla base dell’art. 21 della legge 354/1975 già ricordata. A questo proposito vale la pena spiegare che l’art. 21 istituisce un beneficio che consente al detenuto di uscire dal carcere per svolgere un’attività lavorativa, qualora si verifichino una serie di condizioni.
Queste cifre mostrano che la grande maggioranza dei detenuti è impiegata in lavori poco qualificati, elemento che rende ancor più difficile il reinserimento occupazionale una volta scontata la pena. Per questo, l’organizzazione e la frequenza di percorsi di formazione professionale qualificata sono elementi importanti sia durante la detenzione, sia come opportunità per il futuro una volta usciti.
I dati sulla formazione in carcere riportati dal rapporto dell’Associazione Antigone indicano che:
- a fine 2019 negli istituti penitenziari italiani erano attivati 203 corsi di formazione professionale con 2.506 detenuti iscritti;
- i corsi effettivamente portati a termine sono stati 119, con 1.164 persone promosse;
- i corsi hanno riguardato soprattutto i settori della ristorazione, l’agricoltura, il settore tessile, l’edilizia e l’informatica;
- la situazione sul territorio non è per nulla omogenea e in alcune regioni (Liguria, Molise, Sardegna, Trentino-Alto Adige e Veneto) non sono stati avviati corsi.
Queste cifre, tuttavia, considerano unicamente i corsi di formazione istituiti attraverso modalità formali di svolgimento e riconoscimento. Per contro, nelle carceri italiane sono stati attivati diversi progetti che, tramite la formazione pratica, permettono ai detenuti di acquisire competenze spendibili una volta terminata la pena. Oltre al laboratorio sartoriale del carcere della Giudecca, esperienze positive sono ad esempio quella del forno e pasticceria del carcere di Padova, o la produzione di borse in tessuto nel carcere di Lecce.
Permettere alle donne che lavorano al suo interno di acquisire competenze che possano favorire il reinserimento lavorativo e sociale è uno degli obiettivi della sartoria del carcere veneziano. Il laboratorio esterno creato a Sacca Fisola promuove la continuità tra lavoro in carcere e occupazione a fine pena: “Non sempre è possibile un’azione di questo genere, perché spesso le donne, una volta uscite, tornano nella loro città d’origine: in ogni caso si tratta di un’opportunità in più”, racconta Giulia. E aggiunge che alcune lavoratrici della sartoria hanno trovato lavoro nel settore o avviato una propria attività, una volta fuori.
Quando un detenuto lavora deve svolgere mansioni precise e rispettare regole, orari e ruoli. In questo modo, inizia a sentirsi utile e ad avere una motivazione nuova, rafforzata dalle relazioni con gli altri, inclusi i familiari e gli agenti. Sono solo alcuni degli effetti positivi del lavoro e della formazione professionale in carcere: il dato che esprime meglio il valore dell’esperienza, però, è quello relativo alla recidiva. Secondo le informazioni fornite dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e riportati nel bollettino Adapt di aprile 2019, tra i detenuti che hanno lavorato o si sono formati in carcere il tasso di recidiva è del 15%, contro il 90% di situazioni diverse.
Margherita lo racconta a modo suo: “Lavorando qui ti rendi conto che la visione di chi dice “Le chiudo dentro e risolvo il problema” è superficiale e semplicistica: spesso le donne con cui abbiamo a che fare arrivano da un passato difficile che va considerato. Lavoro e formazione offrono loro un percorso di cambiamento, di riscoperta: una seconda opportunità.
Gli abiti del laboratorio di sartoria
Dopo aver parlato della sartoria e delle persone che ci lavorano, è arrivato il momento di parlare delle creazioni del laboratorio.
Gli abiti in stile anni ’50 del laboratorio sartoriale del carcere della Giudecca sembrano uscire direttamente da una foto dell’epoca. Niente bianco e nero, però: vestiti dai colori vivaci e dallo stile meravigliosamente retrò. Gonne a ruota e cinture di tessuto da portare alte e strette in vita rendono i vestiti adatti alle corporature più diverse: un taglio estremamente femminile che sembra fatto apposta per regalare eleganza nelle forme e nei movimenti.
Oltre alle proposte anni ’50, nel tempo la produzione del laboratorio sartoriale ha introdotto anche vestiti dal taglio più moderno, che ricordano le linee pulite ed essenziali dei vestiti orientali. Tutti gli abiti sono confezionati con tessuti pregiati e stoffe di qualità: nel tempo, la sartoria del carcere ha collaborato con storiche tessiture veneziane, come Bevilacqua e Rubelli. Rubelli continua ancora oggi a rifornire il laboratorio di tessuti e stoffe pregiate capaci di fare la differenza: le clienti che conoscono l’arte della sartoria toccano gli abiti e si soffermano sulle rifiniture, riconoscendo tessuti di qualità e un lavoro curato nei dettagli.
Tra le creazioni anche soprabiti, cappotti leggeri, borse e sciarpe: abiti e accessori sono in vendita da Banco Lotto n.10, il negozio – boutique del laboratorio di sartoria del carcere della Giudecca, nel cuore del Sestiere di Castello.
Lontano dalle mete turistiche tradizionali ma in ottima posizione nel percorso che porta all’Arsenale e ai Giardini della Biennale, il piccolo negozio-boutique della sartoria del carcere è un angolo di colorata eleganza. La vecchia insegna ricorda che un tempo lo spazio ora occupato dal negozio aveva un’altra funzione, collegando passato e presente.
Entrare da Banco Lotto n.10 vuol dire assaporare una dimensione lenta e accogliente, quasi fuori dal tempo. I profumi delle stoffe si mescolano a quelli della carta e al gesso da sarta: viene quasi naturale fermarsi a chiacchierare, magari d’estate, quando il sole flagella la calli. I visitatori di passaggio sono attirati dagli abiti e dagli accessori della vetrina: creazioni che parlano di stile italiano e bellezza.
Non sono solo i turisti italiani e stranieri a scegliere i vestiti a gli accessori a marchio Banco Lotto n.10: negli anni il laboratorio di sartoria è diventato un punto di riferimento per i clienti locali abituali e per i visitatori che amano tornare spesso a Venezia.
Merito anche delle iniziative e degli eventi organizzati grazie ai contatti della cooperativa sociale “Il Cerchio”. La cooperativa, infatti, ha sviluppato relazioni con l’amministrazione locale, oltre che con vere e proprie istituzioni della scena culturale e turistica veneziana: il Teatro La Fenice e la Fondazione Cini, ad esempio, o l’hotel Hilton Mulino Stucky.
Contatti e collaborazioni hanno permesso di organizzare eventi in luoghi iconici della città, facendo conoscere gli abiti della sartoria ad un pubblico più vasto. Tra le iniziative, la sfilata organizzata al Fondaco dei Tedeschi nell’ottobre nel 2018, inserita nel programma della Venice Fashion Week, o lo spazio al Lido che gli organizzatori della Mostra del Cinema di Venezia riservano da anni al laboratorio di sartoria durante la manifestazione.
L’evento più bello, però, è stato organizzato tra le mura del carcere nel 2015: una sfilata che ha visto fianco a fianco sulla passerella le donne recluse alla Giudecca e le agenti di polizia penitenziaria. Orgoglio, bellezza, rapporti umani che vanno oltre stereotipi e pregiudizi: un evento del genere ti fa cambiare del tutto prospettiva. Era una giornata di maggio insolitamente calda ma emozioni, parole e sguardi hanno tenuto tutti incollati alle sedie.
Acquistare un abito del laboratorio di sartoria del carcere della Giudecca vuol dire cogliere tutto questo: prove e cuciture rifatte, ma anche una riscoperta di sé e una consapevolezza nuova che crescono taglio dopo taglio. È questa la visione che ha fatto nascere e crescere il progetto: sbagliare, capire, ricominciare. Le seconde occasioni si costruiscono così.